Tutela dei beni: privati sì, privati no? Il caso Napoli
Un’introspezione recente ha estratto dalla casta dei ricchi di sempre tredici famiglie che negli ultimi cento anni hanno scelto il futuro per l’intera umanità. Tra loro grandi magnati della finanza e dell’imprenditoria. Taluni, illuminati (in netta minoranza)? hanno investito frazioni più o meno consistenti di immensi patrimoni per far del bene alla collettività. Non era loro estraneo l’obiettivo di mettere in pace un angolo della coscienza, in larga parta macchiata, per non dire sporca, da arricchimenti spropositati, non poche volte ai limiti del lecito.
Nel nostro tempo, suddito della tecnologia innovatrice, i re Mida sono altri, inventori di moderne zecche da conio, che sfornano miliardi di dollari come mai era accaduto, e i detentori di risorse energetiche, petrolio, uranio, per intenderci. Tra i signori Google, Apple, Facebook e affini conviene distinguere tra chi è generoso per convinzione e chi investe in “beneficienza” per farsene merito e indurre il fisco a sorvolare su evasioni milionarie.
Esempi virtuosi di imprese italiane del secolo scorso sono Olivetti, Luisa Spagnoli e tra i contemporanei si distingue Della Valle, generoso finanziatore di opere di salvaguardia di monumenti bisognosi di restauro. Altri scelgono l’anonimato per operano a tutela della natura e di beni storici di Paesi come l’Italia. Come ogni evento che ci riguarda si accende il dibattito sull’etica di questi interventi dei privati.
Se ne può discutere, ma sta di fatto che per decenni l’immensa testimonianza della romanità, seppellita dall’eruzione del Vesuvio del 79 dopo Cristo, ha subìto danni incalcolabili per incuria e colpevole, permanente assenza di interventi. Il riferimento accende la polemica sulla resa dello Stato all’evidenza di scarse e mal distribuite risorse disponibili per custodire tesori inestimabili, testimonianze uniche della storia e dell’archeologia, che rischiano di diventare “merce” in vendita ai privati, al miglior offerente.
Il caso Napoli lo conferma ed ecco qualche esempio: dell’area vulcanica della Solfatara sono proprietarie due famiglie. In origine l’acquistarono i De Luca, era il 1863 e pagarono trentaseimila lire per due chilometri di fumarole e geyser al senatore del Regno Assanti. Non molto distante il mitico lago d’Averno, secondo Virgilio porta degli Inferi, è finito anni addietro nelle mani della malavita, acquistato da un prestanome dei Casalesi insieme a un agriturismo, una discoteca e un ristorante. Per fortuna è stato sequestrato e confiscato. Quale destino toccherà al teatro romano di Miseno (III secolo avanti Cristo) assediato da cattivi esempi di cementificazione selvaggia? E che dire della Piscina Mirabils? Per visitarla è necessario chiedere il permesso di accesso a una villa privata. Non è dissimile il caso della villa del console Servilio Vatia a Torregaveta: i resti sono inglobati in una villa privata.
E Napoli città? Nei sotterranei del Museo Archeologico Nazionale giacciono tesori che farebbero ricco un secondo museo. Nel centro storico, sepolto da orribili edifici di epoca moderna, per di più malandati, i resti del teatro di epoca romana dell’Anticaglia, inaugurato da Nerone con una sua performance canora. Dell’impianto, con le sue migliaia di posti è stata recuperata faticosamente una piccola porzione. Il resto è sepolto sotto uno degli edifici che sono stati costruiti sui suoi resti. Nessun dubbio, in altre città d’arte quel palazzo sarebbe stato abbattuto da tempo per restituire il teatro alla città in pieno ambito dei decumani.
La lista delle inerzie locali e nazionali che spalanca le porte ai privati è dolorosamente lunga: un altro paio di scandalosi deficit d’intervento denunciano l’abbandono dell’Albergo dei Poveri, stimato come il più imponente edificio pubblico d’Europa, privo da decenni di un progetto per la destinazione d’uso. Il centro antico della città, straordinario insieme di sovrapposizioni greche e romane, di chiese e imponenti palazzi storici, aspetta da decenni il via a interventi di valorizzazione e sistemazione razionale. Un ultima citazione è per la Piazza del Plebiscito. Sottratta al ruolo infimo di mega parcheggio, è da trent’anni un’oasi di deserto urbano, inutilmente maestosa e priva di vissuto.
Un comma atipico ma egualmente significativo del tema, che non può mancare è sul “lungomare”. La via Caracciolo liberata dal traffico automobilistico è priva di dignità e viva e vegeta solo nei fine settimana, presa d’assalto da orde di paninari caciareschi, da minibazar d’ogni forma e mercanzie, assordata da musica a tutto volume e non sempre di qualità, che fino alla mezzanotte rompe i timpani della Napoli che s’affaccia sul mare, da fuochi d’artificio che più volte, ogni sera e fino a notte, festeggiano chissà chi e chissà che.
Al di qua della scogliera, che conserva ancora i “baffi” allungati in mare per i preliminari della Coppa America, mai più rimossi, la spiaggia ha guadagnato molti metri e ospita i napoletani che non possono concedersi la villeggiatura. Cosa costa dare decoro al cosiddetto lido “mappatella” con strutture di accoglienza decorose e servizi da città civile? Per ora quei tratti di spiaggia urbana sono un pretesto colto da turisti a caccia di folclore per gli scatti degli smartphone.
Una lamentazione dopo l’altra non può ignorare il sistema mobilità di Napoli: ad esclusione dell’aeroporto di Capodichino, bello e funzionale come pochi, la stazione marittima non riesce a liberarsi dal caos, la piazza Garibaldi, altro biglietto da visita della città è l’eterno paradigma della Napoli caotica, disordinata, il metrò delle meravigliose stazioni d’arte soffre patologie tecniche, con stop ripetuti e per corse poco frequenti, le funicolari impongono improvvisi stop, la mobilità su bus denuncia evidenti carenze, storiche e recenti.
Ci chiedono se amiamo Napoli e, se sì, perché. “Boh?”
Luciano Scateni
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