Mani avide, anzi tentacoli con possenti ventose: si moltiplica l’assalto all’incredibile scenario del calcio. Suonano la carica per la conquista dell’attraente forte, sceicchi in ambasce, perché “costretti” a investire il flusso stratosferico di ricchezze da re Mida. Non sono da meno le mire espansioniste di miliardari generati dalla spregiudicatezza del big man russo Putin in concorrenza tra colossi finanziar pubblici e privati, della Cina, sempre più prospera e finanziariamente colonialista, della potenza straripante dei magnati americani e, fino all’invasione barbarica di questi nababbi, della tiade italiana Agnelli, Moratti, Berlusconi. Ora che il gioco diventa duro i nostri fanno un passo indietro, ad eccezione degli eredi del mitico avvocato Gianni, iniziatore e propulsore della dinastia vincente in bianconero, la signora Juventus. Irrompono, a suon di miliardi, gli emirati arabi, (Gran Bretagna, Spagna) e nel nostro campionato l’italo-americano Pallotta (Roma), l’italo-canadese Joey Saputo (Bologna), i cinesi della cordata Yonghong Li (Milan), i coreani di Thoir (Inter). Il mondo del pallone, raccontato a iosa, ovvero con il bombardamento permanente dei media, primo fra tutti del mezzo televisivo, ha innovato profondamente il rapporto tra fruitori del popolare sport e i luoghi che lo accolgono. E’ che la perfezione della rappresentazione video fornita dai grandi network ha rapidamente catturato il favore delle tifoserie. Reggono ancora la dimensione del “tutto esaurito” negli stadi le grandi sfide che saldano cuore e anima dei fan, ma a fare statistiche e conti, il bilancio dice in modo inequivocabile che il calo di presenze negli stadi è consistente. Chi ha il bernoccolo degli affari (e chi investe miliardi nel calcio ne è dotato) si è adeguato, ha investito in ristrutturazioni e nuovi impianti, ha delegato il marketing a indagare sul restyling del rapporto con gli appassionati per recuperali allo spettacolo dal vivo. Lo stadio del futuro perde le prerogative univoche di tempio del gioco e diventa mercato di gadget, posto di ritrovo ospitale anche per donne, bambini, intere famiglie, dove si può coniugare la passione sportiva con svaghi e comfort di ogni genere. L’idea è tanto incidente da indurre Pallotta, padre-padrone della Roma a minacciare il declassamento della squadra per la vendita dei giocatori migliori se la Raggi non avesse detto sì alla costruzione del nuovo stadio a Tor di Valle, scelta contestata da ambientalisti e urbanisti. La pensano come lui, all’unisono, molti grandi club italiani, europei, del mondo, anche di quello emergente, che puntano apertamente a un maxi campionato esclusivo, per club miliardari. Quanti italiani? La Juve-Fiat, il Milan ex berlusconiano, l’Inter ex morattiano e forse il Napoli se i pescecani della finanza cinese dovessero ritenere appetibile l’esca innescata da De Laurentiis nelle sue sortite pechinesi. I “normali”, quelli che definiscono il calcio oppio per frastornare l’umanità, ipnotica strategia sostitutiva del pensiero critico su quanto accade nel mondo, sono allibiti. Stupisce il campanilismo che assume forme delinquenziali, anche razziste, con i beceri club degli ultrà violenti. I refrattari all’ossessione del calcio giocato, del continuum di cronache, commenti, illazioni che i media impongono per sette giorni su sette, si assottigliano. I più sono travolti da insana passione per squadre (di alta risonanza) in cui si esibiscono nelle “squadre del cuore” fino a undici giocatori su undici nati in Nigeria, Argentina, Albania, Serbia e Croazia…La fede del popolo di tifosi napoletani in questa dimensione è paradigma dell’incongruenza. Ecco una possibile e veritiera formazione degli azzurri: Reina (Spagna), Hysaj (Albania), Albiol (Spagna), Ghoulam (Algeria), Allan (Brasile), Diawara (Guinea), Hamsik (Slovacchia), Calllejon (Spagna), Milik (Polonia), Mertens (Belgio). E il proprietario-presidente del Napoli? Aurelio De Laurentiis, romano de Roma, presunto napoletano perché figlio di Luigi, nato a Tore Annunziata è in conflitto permanente con il sindaco De Magistris, materie del contendere lo stato pietoso del San Polo, che l’incuria ha ridotto a stadio spazzatura e l’idea più volte abortita di un nuovo impianto. Sulla prima questione, di là delle condizioni dell’impianto progettato da Carlo Cocchia e nel suo aspetto originale forse sola opera edilizia napoletana presa in considerazione dalle riviste di architettura, De Laurentiis ha toppato clamorosamente. Respinto il suo progetto di ristrutturazione. Il tema del nuovo stadio obbedisce al più classico dei “bla,bla,bla”. Chiacchiere, ipotesi di localizzazione incompatibili logisticamente, ma soprattutto velleità di costruire una specie di bomboniera per soli ventimila tifosi d’élite, danarosa e “grata” per il privilegio di sedere in eleganti poltrone, consumare spuntini, pranzi e cene nella struttura, serviti da hostess avvenenti. Comunque finora in gioco ci sono solo ipotesi. Da imprenditore di successo qual è, in attesa del grande evento “stadio nuovo”, avrebbe potuto suggerire di smantellare l’oscena copertura del San Paolo. La vendita del ferro (costo enormemente lievitato rispetto al prezzo del 1990), malamente calato sull’anello elegante disegnato da Cocchia, avrebbe fruttato quanto basta per ridare dignità all’impianto. Che poi il San Paolo sia nel cuore di un quartiere urbano con molti disagi connessi è ipotesi da condividere. Dove edificare il nuovo non è detto. L’importante è che a occuparsene non sia De Laurentiis.
Luciano Scateni
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