Non tarderà ad auto immortalarsi in abiti regali e tanto di corona in testa: un selfie promozionale per la campagna della candidatura a sovrano di un neo regno delle due Sicilie. Nelle stagione disgregante di questo 2017 soffia il vento e tra non molto infurierà la bufera del secessionismo e De Magistris, con un atto improprio, espone al balcone che sembra proprio quello del suo ufficio di sindaco di Napoli, la bandiera catalana (tra l’altro nel verso opposto, con le strisce giallo rosse a testa in giù). Sui metodi della repressione ordinata da Madrid contro la volontà dei catalani di votare il referendum sì-no all’indipendenza non si può essere che d’accordo: la violenza dell’intervento repressivo è da condannare senza riserve, ma provare a capire le ragioni del sì è politicamente rilevante. Senza mezzi termini, siamo di fronte all’eterna questione di Paesi divisi a metà, tra Nord economicamente solidi e Sud marginali, ovvero terre di storiche emigrazioni e sottosviluppo. Succede in Spagna come in Italia e nel mondo se si includono nell’analisi America settentrionale e meridionale, in Inghilterra dove il sud è il nord, ma la musica è la stessa, e in molte altre latitudini della terra dove la frattura tra benessere e povertà è netta. De Magistris ritiene probabilmente di rappresentare l’antidoto alle spinte indipendentiste delle regioni del nord Italia, privilegiate dalla politica miope e pigra dei governi italiani, che hanno puntato tutto sulla contiguità geografica di Lombardia e Veneto con l’Europa dei Paesi forti e considerato il Mezzogiorno la palla al piede del sistema, da tenere buono con sporadiche leggi speciali e iniezioni finanziarie evidentemente incapaci di ricomporre l’equilibrio dell’intero Paese.
Dicono i catalani di volere la secessione perché diversi da madrileni, sivigliani, castigliani e aragonesi, perché detentori di cultura, storia, usi e costumi altri rispetto alla Spagna e ci si deve chiedere in cosa la rivendicazione è differente dalle diversità italiane tra Piemonte e Sicilia, Emilia e Molise, Trentino e Campania. Ognuna di queste realtà difende, a ragione, la propria individualità, dialetti e culture autoctone, ma contemporaneamente ha consapevolezza del valore di unità conquistato dopo secoli di contrapposizioni, guerre e precarie autonomie. La scelta del sindaco di Napoli, nessun dubbio, è frutto dell’appropriarsi di un segmento dilagante del populismo ed esalta “Il desiderio e l’urgenza di sovranità dei popoli europei”.
Dunque bene la May, che lascia la Ue e rischia di far pagare alla Gran Bretagna (si chiamerà solo Inghilterra?) il costo salato dell’isolamento? Bene Salvini e le velleità secessioniste del leghismo? Ma soprattutto, bene il De Magistris di una Napoli indipendentista? Il sindaco non lo dice, ma l’esaltazione del separatismo catalano sembrerebbe andare in quella direzione. Ma poi, la condivisione al separatismo catalano è forse patrimonio di un milione di napoletani? E ancora. L’unità delle Spagna è sancita dalla Costituzione di quel Paese e non può essere messa in discussione da un referendum. Per identiche motivazioni la Lega di Salvini ha dovuto dismettere l’idea di secessione e ridimensionare il suo settentrionalismo alla rivendicazione di maggiori risorse statali, di altri privilegi non strutturali riconosciuti alle Regioni autonome.
Finestre e balconi di Palazzo San Giacomo espongono altri simboli (della pace) e bandiere, italiana, europea, che è bene sventolino senza ambigue promiscuità.
Luciano Scateni
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