Articolo pubblicato il: 23/11/2016 11:00:37
Non è andato oltre la terza media. Il burbero padre, con il peso di sei figli sulle spalle, e del precariato di vendemmiatore nel breve lasso di tempo pre-autunnale della vendemmia, è stato come sempre di poche, pochissime parole. Gli ha detto “va a faticà”. L’unica fatica possibile è al servizio del più grande allevatore di Romagnano al Monte. Pecore, mucche e nella fattoria, che dista dal paese un paio di chilometri, conigli, cavalli da tiro, un paio di struzzi che fanno uova otto, dieci volte più grandi di quelle di gallina che don Nunzio vende ogni mattina al mercato di Balvano. Il comune di Romagnano, negli anni che hanno preceduto il sisma dell’80 era forse il più piccolo della Campania, con poco più di trecento abitanti. Meno piccolo di Moncenisio, paese ai confini con la Francia che con la sconfitta italiana della seconda guerra mondiale ha perso il meglio e si è ridotto a un territorio minimale, a una sessantina di iscritti all’anagrafe, nemmeno tutti residenti. Romagnano se ne sta incollato alla sommità del crinale del comune di Buccino, si eleva sul livello del mare per 650 metri, è prossimo al confine con la Basilicata. Gli esperti di terremoti lo classificano zona 1 (sismicità alta).
Cosimo sogna in bianconero e per il giorno della prima comunione ha chiesto in regalo la maglia numero dieci indossata dai suoi miti juventini. Il più grande dei fratelli, appassionato di radiotecnica, costruisce per lui una ricevente a galena, di quelle che si confezionavano durante la guerra, per sentire di nascosto e sottovoce, le notizie senza filtri di radio Londra. “Così, in montagna puoi sentire la radiocronaca di Carosio, quando racconta la Juve”, gli suggerisce e Cosimo in montagna ci va, con le mucche di don Nunzio, per la transumanza. L’autunno del 1980 prolunga oltre il tempo stagionale il clima estivo, ma l’escursione termica è in atto con temperature rigide a sera e nelle prime ore del mattino quando Cosimo si sveglia con la luce negli occhi e le ossa rotte dal letto rudimentale nel capanno dove filtra il freddo.
E’ tempo per Cosimo, di metter fine ai pascoli in montagna, di far ritorno al paese, a un letto decente, alla cucina di mamma. Il rientro è faticoso e lento, dettato dal passo flemmatico degli animali. A un tratto sbanda, fuori equilibrio, gli manca la terra sotto i piedi. È rimasto stranito per un boato che rintrona in tutta la valle e accelerare il rientro. Oltrepassato un picco della montagna l’abitato di Romagnano appare avvolto in una nuvola di polvere. Il cuore del ragazzo va a mille, asseconda la consapevolezza che qualcosa di grave è in corso laggiù.
Romagnano non c’è più. Si è sbriciolato, appiattito al suolo con la prima, devastante scossa tellurica, poi con l’ondata di spallate di minore intensità che nel linguaggio dei geologi si definisce sciame. Cosimo abbandona il gregge e corre con quanta forza ha nelle gambe. All’ingresso del paese ha difficoltà a orientarsi. Niente è più come prima. Macerie su macerie, strade spaccate in due, la facciata della chiesa che dà sul sagrato in piedi come una quinta e dietro il vuoto, gente con lo sguardo stralunato. Dai cumuli di pietre un lamento e mani che scavano, febbrili. Si ferma anche lui, aiuta i soccorritori, ma non c’è più niente da fare. La donna sepolta dalle macerie viene estratta senza vita. Via di corsa. Le disadorne mura della sua casa si sono accartocciate. Quanto è rimasto in bilico negli angoli di stanze che non ci sono più, povere cose raccontano la quotidianità violata: un treppiede su cui poggia sbilenco un catino dell’acqua, impolverato e su di un muro in gran parte sventrato, il disegno incorniciato alla meglio di Rosa, ultima nata dei Cammarota. Accanto la fotografia di padre e madre di Nunzio, sbiadita dal tempo.
“Mamma mia!”. Cosimo si aggira fra le macerie con il terrore nel cuore, ma è impossibile capire se li sotto ci sono corpi sepolti dal terremoto. Raggiunge di corsa la piazza del paese, dove vigili del fuoco e volontari organizzano i soccorsi. “Aiutatemi” chiede disperato. Tornando dov’era la sua casa coglie l’immagine disperante di quel che resta della scuola. Da uno squarcio nella parete all’interno dell’ aula senza più il solaio, la lavagna è ancora inchiodata alla parete rimasta in piedi. Una mano, incerta, di un alunno ha scritto con il gesso “Tema: perché vi piace il vostro paese”.
Una squadra di vigili del fuoco e giovani militari lavorano a liberare i cumuli di macerie per capire se c’è qualcuno in vita. A notte inoltrata, con la luce delle fotoelettriche è quasi certo che sotto le macerie non è rimasto nessuno. “Maronna, e addò stanno?” Cosimo si aggira nel paese fantasma, si spinge fino al crinale che domina il fiume Platano, torna indietro, attraversa il cuore di Romagnano, il più danneggiato, chiede notizia di chi è scappato dal sisma a chiunque si aggira con precauzione nelle strade irriconoscibili. “Prova al campo sportivo, forse sono là” gli dice una guardia forestale e il cuore si apre alla speranza.
Sono lì, stretti uno all’altra. Indosso gli abiti di casa, neppure un giubbotto, una coperta. Nunzio stringe a sé Maria, la figlia più piccola, gli altri tutt’intorno alla madre, infreddoliti, ancora negli occhi le crepe dei muri di casa, il primo riparo dove li ha spinti il padre, sotto la piattabanda del muro perimetrale, il più spesso, la corsa oltre la soglia, all’aperto, le grida dei sopravvissuti per ritrovarsi, il cielo privo di stelle, il primo soccorso del medico condotto a Lello e Ivan feriti dalle pietre di un balcone venute giù a una nuova scossa.
Il terremoto: intenso, imparagonabile alle scosse che in Giappone raggiungono il tetto di 9 gradi della scala Richter, meno più distruttivo. Perché non provoca danni come qui, dove la terra ha tremato con un potenziale inferiore? Lo spiega in televisione il più autorevole esperto giapponese di catastrofi da sisma. Romagnano e altri insediamenti ricchi di storia furono edificati in cima ad alture, a difesa di incursioni nemiche, poggiati sulla rigidità della roccia, in assenza di elasticità del terreno. Il peggio per sopportare gli insulti del sottosuolo.
Precarietà, miseria: un calvario per Nunzio e i suoi. Cosimo se la cava. Riprende a governare le pecore, ridiventa sostegno unico della famiglia. Poi via, in Germania, dove lavora in una fabbrica messa su da un emigrante di Romagnano con il denaro di un’inaspettata eredità. Torna in Italia ogni anno nella quindicina centrale del mese di Agosto. Al primo rientro è profonda la pena per un borgo antico ferito a morte. Più a valle il nuovo della ricostruzione. Case anonime, una uguale all’altra, in successione ossessiva. Venendo giù, superato il confine, la scelta non programmata, ma sognata, di una sosta nel comune montano dove la Juventus è in fase di preparazione al campionato. Mischiato ai fan della “Vecchia Signora”, sogna a occhi aperti, ma dura poco, ha la meglio la fretta di tornare a casa . e si rimette in macchina, direzione Sud.
Nunzio non ha metabolizzato la sfortuna nella sfortuna di aver perso la casa costruita dal padre, modesta ma vissuta come bene fondamentale di sopravvivenza: “Un tetto è tutto”, ha ripetuto per anni a moglie e figli quasi a compensare gli stenti vicini alla povertà. Gli mancano la vista sulla valle, dalla finestra della stanza da letto non a caso, orientata ad est, la casupola dove custodisce gli attrezzi per la vendemmia e la vinificazione, il latrare di Nerona, cagna di grande compagnia e la contiguità con la casa di Erminio, compagno di coppia per le gare di bocce in paese. Gli pesa la frustrazione di poter contare solo sul lavoro di emigrante del figli, oltre a sporadici lavori manuali per sfamare la famiglia. Incontra lo sguardo di Cosimo e lo distoglie in fretta.
Luciano Scateni